L’umanità e la sensibilità del grande artista viste attraverso le lettere a Theo e il saggio di Antonin Artaud
[…] «Forse in seguito ammireremo quanto fai ora»[1]
Per
quanto ne so, non esiste una sola accademia
in cui si impari a disegnare e a dipingere uno zappatore,
un seminatore, una donna che mette al fuoco la
cuccuma o una cucitrice.[2]
Le figure nei quadri dei vecchi maestri non lavorano.[3]
Introduzione
Anche se sembra che ultimamente l’immagine di Vincent van Gogh abbia subito dei miglioramenti, sulla sua genialità artistica grava sempre il marchio della follia e schizofrenia che lo avrebbero portato anche al suicidio a 37 anni. Tutti sanno che van Gogh si era tagliato un orecchio (o forse soltanto il lobo di un orecchio) durante una lite con Paul Gauguin, ma pochi hanno letto le sue lettere che forniscono informazioni preziose sulla vita interiore di questo pittore incompreso. E’ estremamente riduttivo limitare il talento di van Gogh alla malattia psichiatrica perché essa costituiva soltanto un piccolo tassello del suo carattere. Dalle sue numerosissime lettere si evince invece quanto fosse dotato di umanità e sensibilità, fino al punto da essere quasi troppo buono per questo mondo che finché fu in vita non aveva mai saputo cogliere la sua genialità.
Van Gogh fu uno degli artisti più influenti di tutti i tempi. Mentre in vita non riusciva nemmeno a permettersi i colori per dipingere oggi i suoi quadri sono tra i più costosi al mondo. Come scrive Antonin Artaud nel suo famoso saggio Van Gogh. Il suicidato della società egli ha profondamente influenzato il nostro modo di vedere le cose e oggi ci dobbiamo rifare a lui per poter capire un girasole, un temporale o un cielo tempestoso in natura.[4] Il mezzo stilistico di van Gogh non era la somiglianza fotografica, faceva invece confluire le sue impressioni e percezioni soggettive nella pittura e sperimentava molto con i colori. Sul Ritratto del dottor Gachet del 1890 egli stesso scrisse: “Al momento sto dipingendo un ritratto del dottor Gachet il cui sguardo esprime la stessa desolazione dell’epoca in cui viviamo.”[5] Questo approccio post-impressionista fu poi portato avanti da molti altri artisti del 20° secolo come per esempio da Egon Schiele, Oskar Kokoschka e Gustav Klimt nella Vienna Fin de Siècle.
Incapacità di vivere e umanità
Vincent Van Gogh nacque il 30 marzo del 1853 a Zundert vicino a Breda, nel Brabant settentrionale. Suo padre con cui ebbe dei rapporti piuttosto difficili a causa di idee contrastanti su quasi tutto era un pastore protestante molto bigotto. (“Penso che nostro padre sia l’opposto dell’uomo di fede”[6]) Una delle persone più importanti nella vita di Vincent fu senza dubbio il fratello Theo, di 4 anni più giovane. Dal 1872 fino alla sua morte nel 1890 i due fratelli intrattennero una fittissima corrispondenza che ci è pervenuta quasi integralmente. Esistono diverse edizioni integrali e non della corrispondenza tra i fratelli (e con altri corrispondenti) e tutte le 902 lettere (di cui 668 a Theo) possono essere lette in lingua originale e in traduzione inglese sul sito VanGoghLetters curato dal Van Gogh Museum di Amsterdam. (Van Gogh scrisse in olandese, francese e inglese).
La prima carriera che Vincent intraprese insieme al fratello dopo aver interrotto gli studi era quella di commesso in un negozio d’arte. A un certo punto si appassionò molto alla Bibbia e in seguito alla lettura di un romanzo di Dickens (probabilmente il Canto di Natale del 1843) fu risvegliata la sua compassione per i poveri e gli sfruttati. Decise quindi di occuparsi come missionario nel Borinage, la zona mineraria del Belgio. Proprio là iniziò ad eseguire i primi disegni di minatori, lavoratori delle campagne e contadini. Si immerse nell’esistenza tormentosa di quella gente e tentò di allievare a loro la fatica e la povertà. Per tutta la sua vita Vincent non riuscì mai a mantenersi con un qualsiasi lavoro e dopo la prima occupazione di commesso d’arte rinunciò anche a quella di predicatore. Si sentiva un fallito e gli pesava vivere sulle spalle degli altri: “[…] ma da qualche parte deve pure esserci del lavoro che io possa fare altrettanto bene di qualcun altro.”[7] Non possiamo fare a meno di fare un paragone con Cesare Pavese, letterato estremamente dotato e sensibile che fu afflitto da problemi simili e morì suicida nel agosto del 1950 a 41 anni, quindi poco più vecchio di Vincent van Gogh.
Il fratello Theo era invece più tagliato per gli affari e dopo aver fatto carriera come mercante d’arte mantenne il fratello per tutta la sua vita. Vincent era un accanito lettore, adorava per esempio il Germinal di Èmile Zola che uscì nel 1885 e si sposava perfettamente con i suoi interessi. (“Ho appena ricevuto Germinal e ho preso subito a leggerlo. Ne ho letto cinquanta pagine circa e ritengo siano magnifiche”[8]) Grazie all’aiuto finanziario di Theo riuscì ad eseguire un numero impressionante di quadri e a formarsi sulla pittura: “Per esempio, per menzionarne una, io ho la passione più o meno di studiare … esattamente quanto sento il bisogno di mangiare pane. Tu lo capirai benissimo. Sai bene che l’ambiente artistico mi suscita una passione fortissima, un vero entusiasmo.”[9] Nel 1885 esegue i Mangiatori di patate, quadro con il quale tentò di far capire che le povere persone raffigurate che mangiano patate alla luce fiacca di una lampada hanno zappato la terra dove le stesse patate sono cresciute.
Difficoltà relazionali e produttività artistica
Sul piano affettivo Vincent non ebbe più successo che su quello professionale. Si innamorò di una lontana cugina ma la famiglia si oppose alla relazione e il suo amore del resto non fu corrisposto. Scelse poi di mettersi con la prostituta Sien (Clasina Maria Hoornik) che ritrasse diverse volte. Fu mosso soprattutto dal desiderio di aiutarla da un punto di vista umano e donarle una vita migliore. La donna gli servì anche da modella. Scrisse infatti di preferire le donne brutte e vissute a quelle sane e belle: “[…] m’intenderei meglio con una che fosse brutta, o vecchia, o povera, o disgraziata per una ragione qualsiasi, ma che avesse acquistato un’intelligenza e un’anima attraverso l’esperienza della vita, attraverso le prove e il dolore”[10]
La sua relazione “immorale” fu criticata da tutti, in primis dai genitori ma anche da Theo. Vincent giustificava il suo tentativo con la voglia di redimere la donna. Era spinto soprattutto da una profonda umanità e bontà anche se infine il suo tentativo non ebbe successo.[11] Van Gogh fu un’anima molto sola e in tutta la sua vita non riuscì mai ad appagare gli affetti che nutriva nei confronti degli altri, come scrisse in un magnifico pezzo di poesia :“C’è chi ha un grande focolare nella propria anima e nessuno viene a scaldarvisi; i passanti non vedono uscire che un po’ di fumo dall’alto del suo camino; poi se ne vanno per la loro strada. Che fare? È bene alimentare questo focolare interno, possedere qualche cosa dentro di sé, attendere pazientemente (pur con quanta impazienza!) l’ora in cui chiunque vorrà, vi si siederà accanto?”[12]
Per formarsi sulla pittura Van Gogh visitava i musei di Amsterdam dove rimase affascinato da Rembrandt e Franz Hals. Frequentava anche le lezioni all’Accademia di Anversa. Durante una visita a Theo a Parigi incontrò Toulouse Lautrec, Gauguin, Signac e Pissaro. Nel febbraio del 1888 decise di trasferirsi ad Arles in Provenza per i colori caldi e il clima. Avrebbe voluto istaurare una colonia di artisti al sud della Francia e allo scopo affittò la famosa Casa Gialla di Arles. Gauguin raggiunse Vincent in Provenza per vivere e lavorare con lui, ma i rapporti furono burrascosi a causa delle loro diverse idee sull’arte. In una lite Vincent si tagliò un orecchio. Gli attacchi di instabilità psichica continuarono e nel 1889 si fece ricoverare in un manicomio di Saint-Rémy.
Gli ultimi anni della sua vita furono anche i più produttivi, solo ad Arles eseguì quasi 200 quadri. Espose Notte stellata sul Rodano (1888) e Iris (1889) nel Salon des Artistes Indépendentes dello stesso anno e riuscì a vendere l’unico quadro in vita sua (Il vigneto rosso). Dopo Arles con una breve sosta a Parigi si trasferì ad Auvers-sur-Oise dove fu in cura dal dottor Gachet considerato idoneo da Theo per via dei suoi interessi artistici. A fine luglio durante una passeggiata solitaria si sparò un colpo di pistola e morì assistito da Theo il 29 luglio del 1890 all’età di 37 anni ad Auvers. Nella sua ultima lettera a Theo scrisse: “… io continuo quotidianamente a rischiare la vita per il lavoro, al quale ho già fatto dono di almeno metà della mia ragione”[13] Theo non si riprese mai dalla morte del fratello e morì solo sei mesi dopo all’età di 34 anni. Entrambi riposano nel cimitero di Auvers-sur-Oise.
Il suicidato della società di Antonin Artaud
Antonin Artaud (1896 – 1948) fu un attore, regista, poeta e teorico del teatro francese. Ideò il teatro della crudeltà che descrisse nell’opera Il teatro e il suo doppio (Le Théâtre et son Double) del 1938. Nella sua concezione la crudeltà fu intesa come una catarsi (Aristotele). Nel 1920 Artaud si avvicinò al movimento surrealista, ma quando il gruppo propose l’adesione al comunismo se ne staccò: “Breton e i suoi adepti hanno creduto di doversi legare al comunismo e di dover cercare nel dominio dei fatti e della materia il senso di un’azione che non poteva che svolgersi invece nei percorsi intimi del cervello.”[14] La reazione di Andrè Breton non fu altrettanto equilibrata e dopo aver dettato la linea politica del movimento surrealista provvide subito all’epurazione dei dissidenti come Artaud: “Sempre, in ogni campo, la sua attività […] altro non è stata che una concessione al nulla […] Ma oggi, noi questa canaglia l’abbiamo vomitata!”[15] L’atteggiamento esaltato di Breton fa venire qualche dubbio su chi tra i due era mentalmente instabile. Oggi Artaud viene considerato una delle figure di maggior rilievo del teatro del 20° secolo, ma per i suoi contemporanei era semplicemente uno schizofrenico, un pazzo. Forse da ciò deriva anche il suo fascino per Vincent van Gogh su cui nel 1947 scrisse quasi di getto un saggio.
Nel suo saggio Van Gogh. Il suicidato della società Artaud si scaglia contro la psichiatria e afferma che il suicido in realtà non era stato perpetrato da van Gogh ma che egli fu spinto a questo gesto dalla società. L’affermazione: “È così che una società tarata ha inventato la psichiatria per difendersi dalle investigazioni di certe lucide menti superiori le cui facoltà divinatorie la infastidivano”[16] potrebbe anche valere per lo stesso Artaud. “E che cos’è un alienato autentico? È un uomo che ha preferito diventare pazzo, nel senso in cui lo si intende socialmente, piuttosto che venir meno a una certa idea superiore dell’onore umano. […] Perché un alienato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di proferire insopportabili verità.”[17] Artaud cita anche Edgar Allan Poe, Gérard de Nerval, Baudelaire e Nietzsche come vittime della stessa società che non era riuscita nè a comprenderli nè ad accettarli. Anche Giacomo Leopardi riflettè sul suicidio nello Zibaldone e in un dialogo delle Operette morali ma grazie alla distanza di più di un secolo Artaud ebbe modo di trattare il suicidio sotto una luce più moderna che tiene conto dei problemi che affliggono la nostra quotidianità.
Il bersaglio di Artaud sono soprattutto gli psichiatri; pare infatti che il dottor Gachet, l’ultimo psichiatra di Vincent abbia avuto un ruolo non indifferente per quel che riguarda il gesto estremo di Vincent. Van Gogh del resto era pienamente cosciente del fatto quanto fosse pazzo il dottor Gachet e lo scrisse a Theo e a sua moglie Jo pochi mesi prima di morire: “Credo che sul dottor Gachet non si debba fare alcun affidamento. Prima di tutto perché è più malato di me, almeno così mi è sembrato, o diciamo pure tanto quante me. Ora, se un cieco vorrà condurre per mano un altro cieco, non finiranno per cadere entrambi nel fosso?”[18] Il dottor Gachet oltre a soffrire di turbe psichiche era anche geloso del talento del pittore che aveva in cura.
Artaud afferma che “[…] è turpemente impossibile essere psichiatra senza recare nello stesso tempo il marchio della più indiscutibile pazzia. [..]”[19] Quest’ultima del resto è anche vox populi largamente diffusa. Si spinge addirittura ad affermare che una conversazione con Gachet potrebbe aver indotto Vincent a spararsi il colpo fatale. Alcune espressioni di Artaud potrebbero sembrare estremiste non solo per il loro carattere poetico, va però tenuto conto che egli stesso fu internato per 9 anni e curato con elettroshock e altre pratiche discutibili: “Anch’io ho trascorso nove anni in un manicomio per alienati e non ho mai avuto l’ossessione del suicidio, ma so che ogni conversazione con uno psichiatra, al mattino, all’ora della visita, mi dava voglia d’impiccarmi, sapendo che non avrei potuto sgozzarlo.”[20] Artaud era un altro caso i cui messaggi forti e scomodi dovevano essere protetti dalle mura di un manicomio. Sente infatti un destino comune con van Gogh: “perché in fondo siamo tutti, come il povero Van Gogh stesso, dei suicidati della società!”[21] In conclusione riportiamo una citazione di Artaud sulle cause del suicidio in generis che a suo avviso molto spesso come gesto viene indotto da cause esterne:
Inoltre, non ci si suicida da soli.
Nessuno è mai nato da solo.
Così come nessuno muore da solo.
Ma, nel caso del suicidio, ci vuole un esercito
di esseri malvagi per decidere il corpo al gesto
contro natura di privarsi della propria vita.
E io credo che ci sia sempre qualcun altro nel
minuto estremo della morte per spogliarci della
nostra propria vita.[22]
Van Gogh senza dubbio fu incompreso e profondamente solo per tutta la sua vita. Sentiva di aver fallito sul piano sentimentale e professionale e ammetteva di aver un’anima inquieta, non portata a relazionarsi con gli altri. Probabilmente quello che Artaud chiama “la velenosa aggressività dello spirito malvagio della maggior parte delle persone”[23] aveva contribuito al suo gesto. Quello che si evince dalle numerose lettere è che Vincent fu una persona dotata di una sensibilità straordinaria e di una bontà fuori dal comune. Altrimenti del resto non avrebbe mai realizzato opere d’arte tra le più affascinanti di tutti i tempi.
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[1] Una frase che gli scrive Theo e che Vincent cita in questo modo: “Non riesco a capire però quando mi dici tu, «forse in seguito ammireremo quanto fai ora»” (Vincent Van Gogh: Lettere a Theo. Napoli: Tullio Pironti Editore, 2013, p. 209)
[2] Vincent Van Gogh, Lettere a Theo, 222
[3] Van Gogh, Lettere, 223
[4] Cfr. Antonin Artaud: Van Gogh. Il suicidato della società. Milano, Adelphi, 1988, p. 47s
[5] Vincent Van Gogh: Una distesa infinita. Ultime lettere. A cura di Sabrina Mori Carmignani. Bagno a Ripoli: Passigli editore, 2012 p. 53
[6] Van Gogh, Lettere, 187 Sulla chiesa scrisse anche: „Non c’è da meravigliarsi che, in chiesa, il cuore s’indurisca fino a diventare di pietra: ne so qualcosa per mia esperienza.” (Ibid, 82)
[7] Ibid, 120
[8] Ibid, 214
[9] Ibid, 53 „E quando leggo […] lo faccio perché essi (gli autori) vedono le cose da un punto di vista più vasto, più mite e più buono del mio, e perché conoscono meglio la vita e io posso imparare da loro.“ (Ibid, 80)
[10] Ibid, 27
[11] “[…] è colpa della donna, questo lo si potrebbe dire e sarebbe vero, ma temo che le sue sfortune si dimostreranno esser maggiori delle sue colpe. Sapevo dall’inizio che il suo era un carattere rovinato, ma speravo che avrebbe fatto dei miglioramenti;” (Ibid, 135) e “[…] ma, ciò malgrado, mi trafigge completamente il cuore vedere una simile povera figuretta febbricitante e miseranda.” (Ibid, 136)
[12] Ibid, 56
[13] Ibid, 275
[14] Cit: Marta Ragozzino: Surrealismo. Art e Dossier, Nr. 103 luglio-agosto 1995, Firenze, Milano: Giunti Editore, 1995, p. 17.
[15] Cit. Ragozzino, Surrealismo, 17.
[16] Artaud, Il suicidato della società, 14
[17] Ibid, 17
[18] Van Gogh, Ultime lettere, 15
[19] Artaud, Il suicidato della società, 31
[20] Ibid, 37
[21] Ibdi, 50
[22] Ibid, 61
[23] Ibid, 18