Analisi e commento del Canto XXVI dell’Inferno nella Divina Commedia di Dante Alighieri: l’episodio di Ulisse e Diomede e l’epilogo dell’Odissea
Introduzione
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.[1]
La Divina Commedia non è soltanto il libro più importante della letteratura italiana ma una della maggiori opere della letteratura mondiale. Oltre a costituire una delle testimonianze più esaustive del mondo medievale è anche alla base della lingua italiana. Anche se Dante Alighieri (1265 – 1321) la compose nei primi 20 anni del 14° secolo non ha tuttora perso attualità e si presta a innumerevoli letture e commenti che nei secoli si sono susseguiti. Il titolo Divino fu aggiunto da Boccaccio, ma Dante stesso aveva definito la Commedia un poema sacro. Oltre alla politica, la religione cristiana gioca infatti un ruolo cruciale nell’opera e Virgilio si pente di aver vissuto nei tempi “pagani”, senza aver avuto la possibilità di conoscere Gesù Cristo.[2] Dante in ogni caso era un religioso molto “equilibrato” e nutriva molto rispetto sia per il mondo classico (“pagano”) che per le altre religioni. Il terzo aspetto fondamentale del poema è la componente autobiografica di Dante che, in quanto bandito dalla sua amata Firenze, si smarrisce letteralmente nei lunghi anni dell’esilio vagando per l’Italia.
Se Dante non fosse stato esiliato, la Commedia probabilmente non avrebbe mai visto la luce. Pare che molte grandi opere siano nate in condizioni sfavorevoli, il Don Quijote di Miguel de Cervantes o meglio dire la bozza di quello che sarebbe diventato il libro più importante della letteratura spagnola vide la luce in prigione, dove l’autore fu rinchiuso da innocente. Il metaforico viaggio di Dante nell’aldilà ha come obiettivo la conoscenza, una meta che anche i viaggi geografici dovrebbero sempre perseguire. Questo primo articolo sulla Commedia sarà dedicato al canto XXVI dell’Inferno e alla figura di Ulisse. Analizzeremo gli innumerevoli riferimenti intertestuali e le differenze dei “viaggi di conoscenza” di Dante e dell’eroe omerico.
Due dei più importanti letterati del 20° secolo, Osip Mandel’štam e Jorge Luis Borges hanno imparato l’italiano con la Commedia e scritto due saggi magnifici: Conversazione su Dante (Разговор о Данте) del 1933 e Nueve ensayos dantescos del 1982. Di Mandel’štam è rimasto nell’immaginario collettivo uno scatto che lo vede girare per il gulag nei pressi di Vladivostok con una copia economica del testo prima di morire per stenti ad appena 47 anni. La moglie Nadežda scrisse infatti nel 1938 che Osip teneva sempre una copia della Divina Commedia di piccolo formato in tasca, visto che gli arresti avvenivano non solo in casa ma anche per strada […][3] Dentro quell’opera c’è infatti un mondo e vale più di centinaia di libri che non troverebbero spazio in una tasca.
Dante non è prolisso, non spreca una sola parola e ha la capacità di caratterizzare una figura in una terzina mentre a molti romanzieri occorrono decine di pagine per ottenere lo stesso risultato. Grazie agli innumerevoli riferimenti intertestuali ogni singolo canto apre un universo a chi legge. Dante lascia intravedere al lettore i fatti e li accenna soltanto, il che rende la lettura del testo difficile ma ricchissima di piacere e molto appagante. Se c’è un libro ideale per l’isola è senz’altro la Commedia perché tutti noi ci possiamo identificare con Dante e scegliere nella lettura gli aspetti che più ci aggradano. E’ possibile leggere la Commedia cinquanta volte nel corso di una vita e trovarne sempre aspetti nuovi, proprio perché non è un libro, ma una biblioteca.
La figura di Ulisse
Ulisse (Ulixes in latino) o in greco Odisseo (Ὀδυσσεύς, Odysseus in tedesco) fu un eroe della mitologia greca e protagonista dell’Odissea di Omero ma comparve anche nell’Iliade. Fu re di Itaca, figlio di Laerte e di Anticlea, marito di Penèlope nonché padre di Telèmaco. L’Odissea termina con il suo ritorno in patria e con l’uccisione dei pretendenti della moglie. Si distinse per l’astuzia durante la guerra di Troia concependo il famoso cavallo e in seguito, durante la sua Odissea vagò per quasi dieci anni nel Mediterraneo, dove si imbatté in Polifemo, Circe, nelle Sirene e in tanti altri personaggi mitologici.
L’eroe omerico compare anche nelle Metamorfosi di Ovidio, nell’Eneide di Virgilio, nelle Epistole di Orazio, nel De costantia sapientis di Seneca e nel De finibus bonorum et malorum di Cicerone. Dante non aveva letto né l’Odissea né l’Iliade perché come Agostino d’Ippona non sapeva il greco, ma conosceva certamente le altre fonti latine in cui compare Ulisse. Altre fonti importanti per la Divina Commedia furono la Bibbia, che Dante conosceva molto bene, e la Consolazione della filosofia di Boezio, un’altra autorità medievale che Dante cita espressamente nel Paradiso.
Mentre l’Odissea narra il ritorno di Ulisse a Itaca dopo la distruzione di Troia in cui ebbe un ruolo cruciale, Dante nel canto XXVI dell’Inferno scrive l’epilogo della vita dell’eroe omerico. Come la Commedia, anche l’Odissea è un viaggio alla scoperta della conoscenza e i protagonisti di entrambi sono molto intelligenti. Ulisse, sicuro di sé, sceglie attivamente di intraprendere il suo ultimo viaggio di cui Dante narra nel canto. Tra i due quello insicuro e dubbioso è senz’altro Dante, che ha sempre bisogno di una guida, mentre Ulisse è intraprendente e audace. Nonostante ciò, il viaggio di Dante nella Commedia riuscì mentre quello di Ulisse fallì in quanto la sua intraprendenza non fu frenata dalla virtù. Egli visse in tempi pagani, ma da studioso di teologia e secondo la scolastica, Dante cerca di integrare la filosofia e la mitologia greca con la religione cristiana. Il suo Ulisse soccombe per aver superato i limiti posti dalla virtù che nel cristianesimo divennero poi quelli di Dio. Nel Medioevo uno dei requisiti principali per le opere letterarie era che dovessero fungere da esempio ed essere edificanti. Ulisse che non rispettò i limiti del mondo, le famose colonne d’Ercole, da un punto di vista teologico doveva essere punito per la sua audacia con la morte. Questo perchè la visione dell’aldilà di Dante è pur sempre quella medievale.
Nell’Iliade Ulisse compare perlopiù come eroe bellico e spesso agisce insieme a Diomede con il quale affronta per esempio Ercole in duello. Per questo motivo anche nella Commedia i due eroi si trovano nella stessa fiamma. Nelle Metamorfosi di Ovidio lo incontriamo nel tredicesimo libro dove vengono contese le armi di Achille tra Aiace e Ulisse e quest’ultimo esce vincitore. Nel suo discorso, Ulisse sottolinea che “nessuno deve rinunciare a sfruttare le sue doti personali,”[4] per poi chiarire davanti all’uditorio ma soprattutto davanti ad Aiace che in lui la mente è superiore al corpo: “Nella mia persona la mente è migliore della mano; anzi, tutta la mia forza è nella mente.”[5] Dante apprezzava la curiosità scientifica e l’intraprendenza di Ulisse, ma nonostante questo nel canto XXVI dell’Inferno narra la sua morte.
Anche se ci sono dei parallelismi, il viaggio di Dante è molto diverso da quello di Ulisse, che fu puramente “scientifico” e appunto privo della grazia divina. Dante ambisce a cogliere il significato spirituale e religioso della vita e il suo viaggio verso la conoscenza è guidato da Dio e perciò sacro. E’ molto interessante osservare come Dante prenda spunto da una serie di caratteristiche della figura di Ulisse per scrivere l’epilogo infelice della sua vita che ovviamente costituisce anche un ammonimento a chi legge. L’Inferno infatti è dedicato ai peccati e ai vizi, mentre il Purgatorio costituisce il passaggio verso la virtù che poi viene raggiunta e perfezionata nel Paradiso. Beatrice sostituisce Virgilio (pagano) nel ruolo di guida di Dante come alla cultura classica seguì quella cristiana.
Il canto XXVI dell’Inferno: quando il mare si richiuse sopra Ulisse
Dante colloca Ulisse tra i fraudolenti in quanto fu molto astuto nelle sue azioni. L’intelligenza per Dante è una caratteristica positiva a patto di non abusarne. Nella sua visione, la morale e l’etica servono a porre un freno all’ingegno e all’astuzia. Il canto di Ulisse mette in evidenza che Dante era un religioso con una fede solida in Dio, ma non risparmiava di critiche anche aspre nemmeno le istituzioni religiose come il Papa. Omero, il padre letterario di Ulisse, si trova anch’egli nell’Inferno sospeso nel Limbo insieme ad altri poeti pagani e lo incontriamo nel canto IV:
Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano. […]”[6]
Per Dante sarebbe un onore enorme poter far parte di quella schiera come sesto poeta e considera come quinto la sua guida Virgilio.
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.[7]
Nonostante la sua fede Dante, pur condannando teologicamente Ulisse, sentimentalmente lo assolve così come assolve Paolo e Francesca.[8] Con i due amanti ha compassione e con Ulisse si identifica. Anche per Dante la ricerca del sapere costituiva una delle principali motivazioni della vita ed egli condivideva l’ardore di Ulisse che per amore della conoscenza fece importanti rinunce. Analizzando in chiave psicologica l’atteggiamento di Dante, egli accetta Dio e le limitazioni che gli vengono poste, ma non condanna umanamente gesti audaci che vanno contro la sua volontà. Apprezza infatti sia la letteratura “pagana” che anche il filosofo musulmano Averroè[9], il che è senza dubbio segno di una mente aperta se teniamo a mente l’epoca in cui visse. Nonostante alla fine vada incontro alla morte, nella Divina Commedia Ulisse viene descritto come un personaggio positivo, al contrario della sua interpretazione in altri testi di epoca romana (come p.es. nell’Eneide di Virgilio). Dante probabilmente si basava più sulla lettura di Ovidio, Seneca e Cicerone e su altre fonti mitologiche, pur apprezzando Virgilio come poeta.
Il discorso dei limiti è affine a quello delle regole o degli ordini dall’alto. Molte persone nella religione cercano dei limiti anche se a volte essi possono rendere la loro vita più difficile o addirittura peggiorarla. Anche il rispetto delle regole per qualcuno può costituire una vera soddisfazione quasi maniacale come si è potuto osservare nei tempi recenti. Il problema etico nasce quando le regole sono prive di senso e recano danni ad altri individui. L’ufficiale SS che arrestò la famiglia Frank condannandola a morte quasi certa nei campi di concentramento sul piano formale aveva seguito solo le regole. Infatti dal punto di vista giuridico il suo procedimento fu archiviato in quanto aveva appunto “seguito solo le regole”, ma ciò non toglie che da un punto di vista etico ciò costituisce una scusa vigliacca.
Dobbiamo sempre essere vigili quando ci imbattiamo in individui che “seguono solo le regole”. I limiti possono essere ragionevoli, ma anche assurdi, dipende dal singolo caso. Sicuramente sono variabili nel tempo e quello che ieri era severamente proibito domani può costituire la normalità. La cosa importante è sottoporre qualsiasi limite e regola ad un’attenta valutazione etica: se sono privi di senso o recano danni ad altri è un dovere non rispettarli, perché altrimenti dovremmo andare contro la nostra coscienza e fare del male ad altri. Nel canto XXVI dell’Inferno il messaggio teologico di Dante è che le colonne di Ercole non dovessero essere assolutamente superate (non plus ultra); tuttavia qualche secolo dopo Cristoforo Colombo mise in dubbio questo precetto scoprendo l’America, tanto che quel motto dovette essere modificato in plus ultra. Nel mondo non c’è nulla che non sia soggetto ai cambiamenti e anche i limiti sono flessibili e variabili nel tempo.
Analisi del canto XXVI dell’Inferno
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.[10]
Firenze è talmente importante che la sua fama risplende anche nell’Inferno. E’ rimasta infatti l’iscrizione sul palazzo del Bargello che recita tra altro: “QUE MAREQUE TERRAQUE TOTU POSSIDET ORBEM PER QUAM REGNANTE FIT FELIX TUSCIA TOTA” e risale al 1255, quando ebbero inizio i lavori del palazzo. Nonostante questo importante ruolo di Firenze, altre città si potrebbero ribellare e rovesciare la sua potenza economica, ad esempio Prato come menziona Dante. Più egli invecchia, più patisce per la condizione penosa della sua città, ma spera in un intervento di Dio che porti la pace.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.[11]
La via percorsa da Dante e Virgilio è molto difficoltosa a causa della ripidità e occorre avanzare a quattro zampe con l’aiuto delle mani. Dante è addolorato per la sorte di personaggi come Ulisse in quanto egli stesso è un uomo di cultura che potrebbe rischiare di far un uso scorretto della sapienza. Deve stare attento anche egli stesso affinché il suo ingegno non superi i limiti imposti dall’etica e che venga sempre guidato dalla virtù. Si identifica con Ulisse e soffre per la sua sorte, ma sottolinea anche il ruolo della virtù che deve sempre guidare l’ingegno e qualche volta frenarlo. Gustave Dorè raffigura il difficile cammino di Dante e Virgilio nell’ottava bolgia.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.[12]
Osip Mandel’štam a proposito della Divina Commedia scrisse che “non sottrae tempo al lettore [ma] al contrario lo moltiplica, come avviene durante l’esecuzione di un brano musicale.”[13] Sembra una definizione azzeccata per le terzine sopra. La similitudine del contadino stanco che si riposa sulla collina da dove vede le lucciole danzare sulla vallata in cui prima ha sudato arando e mietendo è bellissima per descrivere l’impressione di Dante delle lingue di fuoco nell’ottava bolgia. La Commedia non è soltanto ricca di innumerevoli riferimenti intertestuali ad altri autori, alla mitologia greca e romana ecc. ma sovente è poesia pura, ricchissima di immagini che rendono la lettura del testo molto piacevole regalandoci appunto il tempo anziché sottrarcelo. Del resto non c’era descrizione migliore per far immaginare la bolgia in cui danzano le fiammelle dei peccatori. Mandel’štam sapeva bene perché si era portato proprio quel libro all’inferno del gulag e William Blake illustra le fiamme magnificamente.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.[14]
Dante qui cita il rapimento biblico del profeta Elia che si trova nel 2° Libro dei Re e racconta che Elia fu appunto rapito in cielo da un carro di fuoco mentre passeggiava insieme ad Eliseo. “Continuarono a camminare e a parlare. Un carro di fuoco con cavalli di fuoco passò in mezzo a loro. Elia fu rapito in cielo in un turbine di vento.”[15] Quando Eliseo raccontò il fatto in giro non fu creduto e chi lo sbeffeggiava fu poi divorato da un orso. Per questo Dante scrive che Eliseo si vendicò con gli orsi dopo aver visto partire il carro di Elia verso il cielo. Proprio come Eliseo vide la fiamma di Elia che sparì come una nuvoletta, così si muovono le fiamme nella bolgia, senza mostrare il loro contenuto che sono appunto i peccatori celati.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.
“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?”.[16]
Dante sta sul ponte ma ha un equilibrio così precario da doversi aggrappare ad una roccia per non cadere giù. Virgilio spiega che dentro le fiamme si trovano gli spiriti dei dannati senza rendersi conto che Dante avesse già colto questo dettaglio. In questa bolgia il contrapasso consiste nel fatto che i consiglieri fraudolenti sono avvolti nella stessa “lingua” di fuoco con cui hanno dato i consigli di frode. Sono nascosti perché in vita hanno celato la verità per poter diffondere la frode. Ulisse e Diomede in verità non furono consiglieri fraudolenti, ma vengono puniti per l’astuzia delle loro opere. Dante vuole però sapere qualcos’altro da Virgilio: chi si cela nella fiamma a doppia punta o divisa che ricorda il rogo in cui trovarono la morte i figli di Edipo, Eteocle e Polinice che si uccisero a vicenda e la cui fiamma si separò nello stesso modo quando furono messi sul rogo?
Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta”.[17]
Virgilio spiega a Dante che in quella fiamma si trovano Ulisse e Diomede che furono compagni d’armi inseparabili e suscitarono l’ira di Dio soprattutto per tre opere che compirono in vita. Il primo gesto eroico era l’inganno del famosissimo cavallo di Troia concepito da Ulisse che contribuì alla caduta della città. Dante cita il seme dei Romani in quanto da Troia fuggì poi Enea insieme al padre Anchise e al figlio Ascanio. Durante la fuga perse la moglie Creusa che aveva predetto che Enea avrebbe in seguito fondato un grande popolo, appunto i Romani. “Lungo esilio t’aspetta, tanto mar da solcare […] Qui prosperi eventi e regno e sposa regale sono pronti per te: non piangere più l’amata Creusa.”[18]
Il secondo peccato è la scoperta di Achille che sua madre, la nereide Teti aveva nascosto a Sciro tra le figlie di Licomede per non farlo partire per la Guerra di Troia. Ulisse andò in ricerca di Achille perché secondo una profezia, Troia non poteva essere conquistata senza di lui. La presenza di Achille tra le femmine fu rilevata dal fatto che nei doni dell’astuto Ulisse, egli scelse le armi anziché le stoffe e i gioielli. Deidamia, una delle figlie di Licomede di cui Achille si innamorò e che sposò, fu abbandonata da lui a causa del tranello di Ulisse.
Il terzo peccato è invece il furto della statua lignea del Palladio dalla quale dipendevano le sorti di Troia. Di questo fa menzione anche Virgilio nell’Eneide: “Ma da quando sacrilego il Tidide [Diomede] ed Ulisse, l’ideatore dei crimini, osaron strappare dal tempio sacro il fatale Palladio, massacrati i custodi dell’altissima rocca, e con mani cruente la santa effigie afferrarono […]”[19] Qui si intuisce anche l’immagine negativa di Ulisse in epoca romana, spesso apostrofato come crudele e bugiardo. “[…] fuggiamo gli scogli d’Itaca, regno laerzio, maledicendo la terra che nutrì il crudo Ulisse.”[20]
“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!”.
Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”.[21]
Virgilio approva il desiderio di Dante di conversare con Ulisse e Diomede ma chiede di parlare al suo posto dicendogli espressamente di astenersi dall’aprir bocca. La figura di Ulisse era molto nota nel Medioevo perciò la curiosità di Dante è verosimile. I motivi per cui Virgilio non vuole che Dante stesso parli non sono del tutto chiari. Prima di tutto egli non sapeva il greco e Ulisse e Diomede potrebbero offendersi o schivarlo perché non parla la loro madrelingua. Nel Medioevo la cultura greca e classica fu tenuta in alta considerazione e chi non la sapeva rischiava di essere visto come inadeguato a parlare con eroi mitologici come Ulisse e Diomede.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi”.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: […][22]
Virgilio si rivolge infatti con molto rispetto ai due personaggi racchiusi nella fiamma e usa un linguaggio quasi aulico per ingraziarseli: [ O voi che siete …] Li implora infatti di non andare via, se lui tra di loro avesse acquistato qualche, seppur piccolo merito, mentre era in vita scrivendo appunto l’Eneide. Soprattutto di Ulisse vuole sapere dove morì, visto che non conosciamo la fine della sua vita. Quest’ultimo, di importanza maggiore rispetto al compagno Diomede comincia a muoversi lentamente inizia il suo suo racconto.
[Quando] mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.[23]
Dopo essere rientrato a casa dai suoi familiari, Ulisse fu di nuovo preso dall’ardore di conoscenza e intraprese un altro viaggio per mare. Egli comincia il suo racconto dall’addio a Circe. E’ molto probabile che Dante abbia preso spunto dal racconto di Macareo contenuto nel XIV libro delle Metamorfosi. Ulisse aveva ricevuto in dono da Eolo dei venti rinchiusi in un otre che non doveva essere assolutamente aperto. I compagni, pensando che lì vi fosse contenuto dell’oro, liberarono i venti. “Una nave, comunque, una sola, quella che trasportava me e anche Ulisse, si salvò. Affranti per la perdita di tanti compagni, piangendo molto, approdammo a quella terra che si vede laggiù in lontananza.”[24] La terra fu appunto l’isola di Circe che trasformò i compagni di Ulisse in porci. Dopo aver passato un anno a Gaeta alla quale avrebbe poi dato il nome Enea, Ulisse non poteva essere trattenuto né dal padre né dall’amata Penelope e partì nuovamente spinto dal suo ardore e dalla sua sete di conoscenza. Il suo desiderio era anche quello di Dante: diventare esperto del mondo e dei vizi umani. Partì quindi con i soliti compagni di sempre, navigando lungo i lidi dell’Europa (Spagna) dell’Africa (Marocco) e delle isole (Sardegna)
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.[25]
Ulisse e i suoi compagni erano già anziani quando giunsero allo stretto di Gibilterra, alle colonne di Ercole che nessun uomo doveva oltrepassare. Ercole, famoso per la sua forza e oggetto di un dialogo di Leopardi, aveva posto quelle colonne appunto per segnare i confini del mondo. Pare che fu una figura cara a Dante perchè viene citato più volte nella Commedia. Quando i naviganti avevano lasciato Siviglia a destra e Ceuta a sinistra si trovarono proprio davanti allo stretto dove Ulisse tenne il suo famoso discorso per incitare i compagni ad arrischiare l’impresa di oltrepassare le colonne di Ercole per amore della conoscenza. Il fatto che Ulisse trascinasse i compagni con lui nella sventura è un tratto atipico del personaggio perché durante l’Odissea ebbe sempre molta premura per loro.
Ormai che erano arrivati alle colonne attraverso centomila pericoli si trovavano davanti solo una piccola ultima soglia. Dietro c’era un mondo inesplorato, una novità. Ulisse li spinse a tentare la sorte e a comportarsi non da bestie sottomesse ma da uomini intraprendenti che vogliano arrivare alla conoscenza anche attraverso i pericoli. Per lui il coraggio è anche una questione di virtù e usa soprattutto la leva dell’orgoglio per spingere i compagni all’impresa proibita. Essi sono infuocati e non vedono l’ora di girare la nave per cominciare il “folle volo”. Il volo è folle in quanto infrange i limiti posti da Dio. Ulisse non fu obbediente e secondo Dante un eccesso di astuzia rese il suo gesto folle, violando ciò che è sacro.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.[26]
Avevano già intravisto il monte del Purgatorio e l’impresa sembrava riuscire, ma poi dovettero cedere al pianto perché dalla terra si mosse un turbine che percosse la barca. Vennero inghiottiti da un vortice per il loro gesto proibito e per volontà di Dio il mare fu sopra di loro rinchiuso come una tomba. Ulisse non aveva sfidato solo le proprie forze ma anche infranto la legge morale che durante il cristianesimo sarebbe diventata quella di Dio. Egli non poteva aver sfidato il Dio cristiano visto che visse in epoca pagana ma Dante usa il suo gesto lo stesso come ammonimento. Uno degli obiettivi della filosofia scolastica fu infatti l’integrazione della religione cristiana con i sistemi filosofici del mondo classico. L’Ulisse di Dante soccombe come soccomberebbe un peccatore che oltrepassa i limiti imposti da Dio. Si narra che Ercole che dette il nome alle colonne avesse apposta anche la scritta Non plus ultra sopra di esse per segnare appunto la fine del mondo. Dopo la scoperta dell’America, Carlo V cambiò quella scritta in Plus ultra che ancor ‘oggi si trova in diverse iscrizioni in Spagna.
La Divina Commedia ebbe successo subito dopo la sua pubblicazione e questa fama è rimasta inalterata dal Medioevo fino ai nostri tempi perché possiamo sempre trovare dei parallelismi tra l’epoca di Dante e la nostra. Oltre al successo dell’opera un’altra cosa è rimasta inalterata: la lettura è tuttora considerata “eversiva” perché costituisce una strada per la libertà. Lo schiavo che legge pretenderà senz’altro i suoi diritti e comincerà a mettere in dubbio la sua condizione. Oggi non si bruciano più i libri (anche se qualcuno vorrebbe farlo) perché sarebbe un gesto troppo clamoroso, ma questo non significa che chi la pensa diversamente abbia una voce o possa esprimere un’opinione non in linea con il pensiero dominante senza temere ripercussioni. Dante avrebbe avuto una vita difficile anche oggi, molto probabilmente sarebbe stato perseguitato come allora per aver espresso opinioni scomode per chi governa, ma nonostante questo la sua luce continua a risplendere anche a 700 anni dalla sua morte.
[1] Dante Alighieri: Inferno. Torino: Einaudi, 2021, p. 11 [Canto I]
[2] Virgilio morì nel 19 a.C.
[3] „Io pur sorrisi … di Serena Vitale“ Introduzione a Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam. Milano: Adelphi, 2021 [1933], p. 14
[4] Ovidio: Metamorfosi. Torino: Einaudi, 2015 [8 d.C.], p. 509
[5] Ovidio, Metamorfosi, 521
[6] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto IV, 58
[7] Ibid, 58f
[8] Cfr. Jorge Luis Borges: Nove Saggi Danteschi, Milano: Adelphi, 2014 [1982], 102 ss.
[9] „Averoìs che ’l gran comento feo“ [Il commento delle opere di Aristotele] Dante, Inferno, Canto IV, 61
[10] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, 313
[11] Ibid, 314
[12] Ibid, 315
[13] Osip Mandel’štam: Conversazioni su Dante. Milano: Adelphi, 2021 [1933], p. 43
[14] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, 316
[15] Bibbia, Secondo libro dei Re, 2, 11. Citato da lachiesa.it [6/10/2022]
[16] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, 317
[17] Ibid, 318
[18] Virgilio: Eneide: Torino: Einaudi, 2014 [I° secolo a.C.], p. 83
[19] Virgilio, Eneide, 51
[20] Ibid, 99
[21] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, 319
[22] Ibid, 320
[23] Ibid, 320s
[24] Ovidio, Metamorfosi, 569
[25] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, 323
[26] Ibid, 324
4 risposte su “Canto XXVI dell’Inferno: Ulisse e Diomede”
Un’analisi splendida che offre spunti incredibilmente attuali, nonostante i sette secoli di età di quest’opera senza tempo.
Sono contenta che lei abbia apprezzato l’articolo. La Divina Commedia di Dante è una lettura che non passerà mai di moda e ci saranno sempre nuovi spunti ed approcci per goderla appieno.
L’analisi è precisa e molto interessante. Confermo il fatto che Dante può essere riletto molte volte e sempre offre nuovi spunti e nuove riflessioni, una vera enciclopedia. Aggiungo che gli studenti di tutte le classi in cui mi sono ritrovata a spiegarla apprezzano la Divina Commedia e la studiano volentieri. Segno che Dante ha saputo rendere i suoi personaggi vivi ed eterni, mai noiosi, con uno stile che sa catturare i lettori di tutte le età. Ulisse rappresenta proprio la sfida dell’uomo medievale ai limiti imposti da Dio. Dante autore lo colloca tra i fraudolenti, ma Dante personaggio ne ammira il coraggio e la sete di conoscenza, che è ciò che ci fa vivere ed essere uomini. Primo Levi in “Se questo è un uomo” racconta che durante la detenzione ad Auschwitz cercava di ripetere a memoria proprio i versi di questo canto XXVI per non perdere quel poco di umanità che gli era rimasta. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”.
Grazie Roberta per il tuo commento esaustivo. Sono d’accordo con quello che scrivi sulla lettura della Divina Commedia: è talmente ricca e varia che risulta quasi impossibile non apprezzarla. Pur essendo collocato tra i fraudolenti, l’Ulisse di Dante non è un personaggio negativo perché egli riesce ad identificarsi con lui, invidiando forse anche un poco il suo coraggio. Lo stile di Dante è uno dei pregi dell’opera e la rende universale ed eterna.
Ricordo che Primo Levi parlava di Dante e del canto XXVI. Probabilmente sia lui che Mandel’štam cercavano di sopravvivere anche a livello mentale alle atrocità del campo di concentramento anche se il poeta russo non ci riuscì. Trovo notevole che molti grandi artisti e letterati stranieri si sono avvicinati all’italiano proprio per poter leggere la Divina Commedia in lingua originale. William Blake ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a quest’opera immortale. Se non li conoscessi, ti consiglio di approfondire i suoi disegni.