Analisi e commento del Canto XXVI dell’Inferno nella Divina Commedia di Dante Alighieri: l’episodio di Ulisse e Diomede e l’epilogo dell’Odissea
Introduzione
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.[1]
La Divina Commedia non è soltanto il libro più importante della letteratura italiana ma una della maggiori opere della letteratura mondiale. Oltre a costituire una delle testimonianze più esaustive del mondo medievale è anche alla base della lingua italiana. Anche se Dante Alighieri (1265 – 1321) la compose nei primi 20 anni del 14° secolo non ha tuttora perso attualità e si presta a innumerevoli letture e commenti che nei secoli si sono susseguiti. Il titolo Divino fu aggiunto da Boccaccio, ma Dante stesso aveva definito la Commedia un poema sacro. Oltre alla politica, la religione cristiana gioca infatti un ruolo cruciale nell’opera e Virgilio si pente di aver vissuto nei tempi “pagani”, senza aver avuto la possibilità di conoscere Gesù Cristo.[2] Dante in ogni caso era un religioso molto “equilibrato” e nutriva molto rispetto sia per il mondo classico (“pagano”) che per le altre religioni. Il terzo aspetto fondamentale del poema è la componente autobiografica di Dante che, in quanto bandito dalla sua amata Firenze, si smarrisce letteralmente nei lunghi anni dell’esilio vagando per l’Italia.